Donald Cerno

Il “partito di Repubblica” ora vuole l’uomo forte. La proposta presidenzialista del sen. Cerno

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Il “partito di Repubblica” ora vuole l’uomo forte al potere. Lo dice uno dei suoi più autorevoli esponenti, Tommaso Cerno, che è stato direttore dell’Espresso e vice di Mario Calabresi in largo Fochetti. Cerno oggi è temporaneamente “in prestito” al Pd. E cosa ha fatto non appena è stato eletto senatore? Una proposta di riforma costituzionale. In senso presidenzialista. Avete letto bene. Anni in difesa della ortodossia costituzionale dimenticati. Quintali di carta per scrivere che il presidenzialismo era una roba da gente con camicia nera e fez da buttare al macero. Meglio un Capo dello Stato eletto dal popolo – spiega Cerno – che l’ingovernabilità di questi giorni. Anche i sacerdoti del tempio del parlamentarismo, inorriditi dal casino di queste consultazioni, capitolano. E cambiano idea.  Fanno tutti così i giornalisti che arrivano in Parlamento. C’è l’euforia dei primi giorni, mista all’emozione del sedere in Aula e dei primi voti. Poi iniziano a rompersi i coglioni. Soprattutto se si tratta di grandi firme che fanno il loro esordio nell’ultimo girone dei politici. Quello dei peones. Presto sopraggiunge la noia. O, peggio, la depressione.

Il caso di Tommaso Cerno è particolare. Ex direttore dell’Espresso e vice direttore di Repubblica, è stato eletto con il Partito democratico al Senato in Lombardia. Non è stato fortunatissimo. Perché ha deciso il salto professionale scegliendo il momento peggiore dei dem. Lo stadio Xanax. Appena arrivato ha dovuto assistere alle dimissioni di Matteo Renzi, impalato a causa del peggior risultato di sempre della sinistra. Il suo nuovo leader è Maurizio Martina, non proprio uno con il carisma di Palmiro Togliatti. Allora per vincere il torpore si è messo a scrivere. O, meglio, a ricopiare. Con il collega senatore Dario Parrini ha rimaneggiato una proposta di riforma costituzionale depositata la scorsa legislatura, nel disinteresse generale, dal democratico Alessandro Maran. La loro ambizione è di riprovare proprio laddove Maria Elena Boschi ha fallito. “Il 4 dicembre 2016”, giorno della bocciatura del referendum renziano, “è stata la nostra Brexit”, scrivono Cerno e Parrini. Non per questo il Parlamento deve smettere di provare a riformare la Carta costituzionale: “Ci vuole ora una straordinaria assunzione di responsabilità da parte della politica e delle istituzioni che altrimenti rischiano di rimanere travolte”. Dagli anni novanta si è creato uno squilibrio: negli enti locali è stata introdotta l’elezione diretta e ciò ha dato “forza e autorevolezza” a governatori, sindaci e presidenti di Provincia. L’esecutivo nazionale, invece, è rimasto figlio dei compromessi tra i partiti mantenendo una “persistente debolezza”. E’ il momento, dicono i proponenti, di rimediare a questo gap.

Proposta Cerno

Cose che prima facevano schifo alla sinistra, come “la personalizzazione della politica”, adesso vengono rivalutate. Viene addirittura puntato il dito contro i padri costituenti e il loro “peccato originale”. Ovvero l’aver immaginato “un insoddisfacente assetto costituzionale della forma di governo” che ben presto è stata monopolizzata dai partiti. La democrazia parlamentare, inoltre, “non permette una nitida individuazione delle responsabilità, c’è sempre la possibilità per un capo di governo uscente di scaricare su qualcun altro il fallimento del proprio operato”. Bisogna agire e fare presto, mettono in guardia Cerno e Parrini, prima che Cinquestelle facciano come il Duce: “La storia d’Italia ha già conosciuto soggetti che una volta entrati in Parlamento per via democratica e con sistema proporzionale, lo hanno poi completamente svuotato di senso, credibilità e fiducia tanto da farlo diventare un simulacro della democrazia e un trampolino per la dittatura”.

La soluzione è un presidenzialismo alla francese. Con una “clausola anti Di Maio” (possono concorrere alle elezioni solo gli over 35) e il doppio turno: se in prima battuta nessuno raggiunge la maggioranza assoluta si rivota, i due migliori vanno al ballottaggio. Chi viene eletto presidente della Repubblica nomina il primo ministro e decide l’indirizzo politico. Resta in carica 5 anni e può essere rieletto solo una volta ancora.

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