Luigi Di Maio (Instagram)

Senti chi parla: con le “loro” regole, il 20% dei grillini è in conflitto di interessi

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Conflitto d’interessi. Quante carriere politiche si sono costruite intorno a queste due parole. E quante sono rimaste impiccate a esse. Un topos dell’antiberlusconismo. Una formuletta  magica per far venire i capelli dritti al Cavaliere. Tipo il sim sala bim di Silvan. Sulla bocca dei grillini delle origini la frase suonava impertinente. Ma, oggi, sulle labbra del capo politico del partito di maggioranza relativa, quelle proposizioni appaiono minacciose. Molto. “Bisogna risolvere il problema del conflitto di interessi”, ha detto Luigi Di Maio in conferenza stampa, “chi fa politica non può avere le televisioni”. Il riferimento era chiaramente diretto al presidente di Forza Italia.

Chiunque aveva partecipazioni superiori al 5 percento del capitale di una società doveva stare alla larga dai palazzi della politica.

Ai proclami al momento non sono seguiti fatti. Una rapida ricerca nell’archivio della Camera e del Senato dà risposta negativa. Non ci sono disegni di legge depositati sull’argomento. Allora occorre andare a scavare negli scaffali della legislatura precedente. E bingo. C’è una proposta di legge a prima firma Fabiana Dadone, sottoscritta anche da altri big pentastellati come l’attuale presidente della Camera Roberto Fico, il questore anziano Riccardo Fraccaro e il neo capogruppo al Senato Danilo Toninelli. La disciplina proposta dal Movimento 5 Stelle era rigida. Rigidissima. Chiunque aveva partecipazioni superiori al 5 percento del capitale di una società doveva stare alla larga dai palazzi della politica. Che tipo di società? Seguiva un elenco completissimo. Si andava dalla fattispecie berlusconiana, ovvero quelle aziende che operavano in regime di concessione pubblica (Mediaset) o in settori strategici come la comunicazione e l’informazione (di nuovo il Biscione e la Mondadori), fino a tutte quelle società che avevano un qualsiasi rapporto negoziale o contrattuale con la Pubblica amministrazione. Insomma chi faceva impresa, secondo la regola grillina, non poteva essere eletto in Parlamento. Neanche a quello europeo di Bruxelles. A meno che non avesse mollato la propria attività 300 giorni prima delle elezioni. 

E non bastava nemmeno intestare le proprie quote a un parente, il grande fratello grillino aveva previsto anche la clausola anti-furbi: l’ineleggibilità valeva anche se il soggetto controllante o gestore era il coniuge, il convivente di fatto, un parente fino al quarto grado. Gli interessi privati, nella proposta pentastellata, erano incompatibili anche con gli incarichi di governo. Il conflitto non riguardava solo la politica nazionale, ma anche gli enti locali e le Regioni. Nella lista nera figuravano anche i direttori e i vice direttori di testate giornalistiche nazionali. 

Che fine ha fatto quella proposta di legge? Congiunta (e annacquata) in un testo base, è stata approvata alla Camera per poi far perdere le tracce di sé al Senato. E menomale. Perché allora altro che Berlusconi ineleggibile, il quale manco si è candidato. Sarebbe stato circa il 20 percento dei parlamentari grillini a essere in conflitto di interessi. Il dato emerge dalle schede di Openpolis. Secondo il sito il 19,5% dei portavoce del Movimento 5 Stelle ha incarichi societari, mentre il 20,23% ha partecipazioni societarie. In particolare viene messo in rilievo il caso di Michele Gubitosa, eletto ad Avellino e socio di 4 aziende e con 8 diversi incarichi. Non avrebbe avuto conflitti, invece, Emilio Carelli, al momento della candidatura il giornalista aveva già mollato da un bel po’ la direzione di SkyTg24. Sempre Openpolis segnala l’incompatibilità (grillini dixit) di altri due parlamentari che hanno incarichi negli enti locali. Si tratta di Luca Briziarelli, consigliere a Passignano sul Trasimeno, consigliere ed Elisa Pirro, consigliera a Orbassano.   

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